L’etica della fine. Considerazioni sul femminicidio
Una proposta dei movimenti Pro life è quella di stabilire per legge che, prima di praticare l’aborto, un/a medico/a deve fare ascoltare il battito cardiaco del feto alla madre. Perché partire da qui per parlare della violenza omicida contro le donne? Semplicemente perché vorrei spostare l’attenzione su due concetti: la collettività e la responsabilità.
In ogni relazione sentimentale, a partire da quella madre/nascituro; uomo/donna, amico/amica, Io con me stesso/a e tutte le possibili declinazioni che comportano un rapporto con L’altro/a, si ha come la sensazione che sia sparita una dimensione comunitaria per lasciare spazio a una individuale con il contorno di ogni genere di specialiste/i, opinioniste/i e gente comune che pretendono di spiegarti che cosa è l’essere umano.
Mi sono imbattuta così, come semplice ascoltatrice, in una discussione su questa vicenda del battito cardiaco ed ho appuntato qualche frase:
«…non vedo violenza o tortura nell’ascoltare un cuore che batte; è violenza, lo dicono anche gli psicologi; se una donna ha già deciso qual è il senso di ascoltare?».
Se una donna…
Io non vedo nulla di male…
Lo dicono gli psicologi…
Cosa unisce tutte queste affermazioni?
La solitudine della donna.
Mi chiedo perché il cuore non dovrebbe ascoltarlo anche il padre? Perché non un’amica? Perché non tutta l’intera famiglia? Perché chi non ha avuto orecchie pronte ad ascoltare e mani da offrire? Perché solo lei deve essere capace di assumere su di sé il peso della scelta, della colpa, dello stigma? Per analogia lo stesso ragionamento si può applicare alla violenza di genere chiamata femminicidio. L’elemento che accomuna l’omicidio della donna è sempre lo stesso: la fine di una storia ritenuta d’amore.
Quell’imponderabile mistero presieduto da Afrodite ed Eros fa sì che in un dato momento della vita due persone non sono più semplici individui nel mondo ma si trasformano nel destinatario/a di un interesse d’amore: non si è più anonimi ma significanti; si assume così una nuova identità specifica e speciale. Nel momento preciso in cui avviene questo passaggio ciascuna/o di noi porta con sé un bagaglio di sovrastrutture, di idealizzazioni, ma soprattutto l’idea del Per sempre. Ogni amore, nel modo in cui siamo state/i (dis)educati pretende di essere esclusivo ed eterno. Tale condizione, generalmente, si manifesta a qualunque età, dall’adolescenza fino all’età più matura.
Eros è figlio della relazione adulterina tra Ares e Afrodite, ma non bisogna dimenticare che la coppia ha generato anche Deimos e Fobos, cioè paura e terrore. Cosa significa? Semplicemente che nel momento esatto in cui sono soggetto e oggetto d’amore, oltre a mutare il corso anonimo della mia esistenza, si impadronisce di me il terrore di perdere la persona amata; perdendo lui o lei anche io finisco di esistere in quella dimensione. Per molti individui diventa intollerabile, frustrante e inaccettabile. Ci si innamora in due, ma purtroppo di solito è l’iniziativa di uno/a solo/a a porre fine al rapporto; ed è questa l’intersezione più pericolosa ossia quella che arma la mano del carnefice.
Io credo che sia necessario ripartire dalla lingua italiana, riscrivere un nuovo lessico amoroso e della modalità di vivere le relazioni. Le parole non sono neutrali e dal loro uso, come ben ci ricorda Lao Tse, dipende il nostro comportamento:
«Fai attenzione ai tuoi pensieri, perché diventeranno parole.
Fai attenzione alle parole, perché diventeranno azioni.
Fai attenzione alle tue azioni, perché diventeranno abitudini.
Fai attenzione abitudini, perché diventeranno carattere.
Fai attenzione al carattere, perché diventerà il tuo destino».
Per prima cosa occorre eliminare l’aggettivo possessivo Mio. L’altro/a non è il mio amore ma l’Amato/a. Usare il participio aiuta a focalizzare l’azione su chi ama e non su chi è amato; in questo modo gli /le si lascia la radicale libertà di restare o di andare; il legame deve essere lieve come un filo d’erba. Nell’essere umano il Per Sempre dovrebbe essere la capacità di amare a prescindere dall’amato.
Da questo punto di vista si dovrebbe ripensare alla formula delle promesse matrimoniali celebrate con rito religioso, infatti pronunciare, specie a una età giovane, «prometto di esserti fedele sempre e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita» è un impegno veramente titanico e utopistico. Infatti, nella formula dei matrimoni civili questa ipoteca a vita non esiste. Ciò non significa che la responsabilità è minore ma significa usare un linguaggio meno enfatico e più realistico: «mi impegnerò a essere fedele, cercherò di rinnovare insieme a te la direzione di questo amore», potrebbe essere una soluzione, ad esempio. Partire da un ideale così alto significa precipitare con molto più dolore; ecco perché dovremmo abituarci a parlare non solo di lieto fine ma anche di fine lieta. La fine di una relazione dovrebbe essere sempre accompagnata con delicatezza da parte di tutti coloro i quali stanno vicini alla coppia, specie quando ci sono figli, e non trasformarsi in opposte tifoserie. Non si deve dimenticare che con l’altra persona si sono condivisi baci e fiato, cibo e carezze e dunque, per pura civiltà, il distacco non dovrebbe avvenire trasformando l’altro in un mostro ma accettando faticosamente che una storia può finire ma non per questo smettiamo di esistere. L’altra persona, il sentimento che ci ha uniti, dovrebbe essere sempre un dono. Noi facciamo tutto il contrario. Mi viene in mente una immagine: bambini e bambine che giocano all’asilo. Pur di non cedere un giocattolo sono disposti o a difenderlo con capricci estenuanti oppure a farlo a pezzi. Se non ci posso giocare io, non ci gioca nessuno. Nella vita che non è diventata adulta, non si rompono bambole o camion dei vigili del fuoco ma le persone.
Ritorniamo, dunque, alle parole con cui abbiamo aperto questo articolo: collettività e responsabilità.
Gli adulti sono disposti a educare davvero? Oppure, anche in questo caso, abbiamo sposato un modello di adulto, maschile e femminile, narciso, infantile e totalmente deresponsabilizzato? Guardandoci intorno, guardando la Tv o i social media quale immagine di adulto subiamo? Possono essere gli affetti ridotti, come spesso sono, a un semplice oggetto di consumo? Il mio o la mia ex; la mia fidanzata o il mio nuovo fidanzato: tutto qui?
Ritorniamo al mito. Quando Afrodite ordina a Eros di scoccare la freccia in quell’istante il sentimento è del tutto nuovo. Qualche minuto dopo, anche inconsciamente, lo ingabbiamo nelle nostre proiezioni, nei nostri desideri, nel romanticismo. Dimenticando una cosa preziosa: la freccia ferisce! La ferita è un elemento che segna un prima e un dopo e fa male, ci disloca. L’amore dovrebbe essere ascoltato, dovrebbe costruire percorsi inediti, dovrebbe aprire alla conoscenza, invece noi lo riduciamo a una cover.
Se ci amiamo va bene, se corrispondi a quello che ho in mente è tutto perfetto ma se cambi o se mi lasci, ti trasformi in un essere spregevole. Ci si chiede cosa può fare, dunque, la collettività? La prima cosa che viene in mente è la scuola e siccome sono un’addetta ai lavori dovrei fare un discorso molto più articolato e qui non è la sede. Dico soltanto che la scuola non è più l’istituzione preposta a educare, tale funzione è stata quasi del tutto annientata. La perversione lessicale che ha fatto dello/a studente un utente e il modello aziendalistico della scuola basato su performance e competenze ha di fatto segnato una separazione tra insegnante, alunne/i e famiglie.
Certamente, un inasprimento delle pene per sottolineare la gravità di un crimine tanto odioso è necessario ma non sufficiente. Servono investimenti nella prevenzione, più persone formate nei centri anti violenza. Se una donna chiede aiuto deve sapere che lo troverà e che non sarà abbandonata. Fino al prossimo omicidio rimane lo sgomento delle vite recise, il rimorso di non arrivare in tempo, di non aver colto i segnali e una generale impotenza. Di una cosa sono certa. La vera emancipazione non è un dato anagrafico, né il lavoro che fai o il luogo in cui vivi, ma è una rivoluzione culturale che parte dalla persona: i libri che legge, i paesaggi che osserva, le parole che usa, la sua costante ricerca di equilibrio, il suo modo di farsi discepolo/a dell’Amore.
Scriveva Rumi nel 1200 d.C.: «Il tuo compito non è quello di cercare l’amore, ma solo di cercare e trovare tutte le barriere che hai costruito dentro di te contro di esso».
In memoria di Giulia Tramontano e del piccolo Thiago.
In copertina: una scultura di sabbia sulla spiaggia di Platamona, nel nord Sardegna, per ricordare Giulia Tramontano. Foto Ansa.
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Articolo di Giovanna Nastasi
Giovanna Nastasi è nata a Carlentini, vive a Catania. Si è laureata in Pedagogia e Storia contemporanea e insegna Lettere negli istituti secondari di II grado. La sua passione è la scrittura. Ha pubblicato un romanzo, Le stanze del piacere (Algra editore).